Saranno famosi
“Saranno famosi” e il mondo reale…

“Saranno famosi” (Fame, 1982-1987) è ben più di una serie televisiva: è diventata un archetipo. Per generazioni, ha rappresentato un ideale di scuola artistica in cui talento, passione, disciplina e creatività si intrecciano quotidianamente tra le aule di danza, i corridoi dei laboratori teatrali, le sale prova e le scale polverose di un vecchio edificio newyorkese. In quella High School of Performing Arts, ogni studente lotta per un posto nel mondo dello spettacolo, tra sogni di successo e una realtà spesso dura e selettiva. Ma cosa ci dice oggi, a distanza di quarant’anni, quell’immaginario sulla condizione della formazione artistica nel nostro Paese? E, soprattutto, cosa possiamo dire confrontando quel modello narrativo con la realtà dell’Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica (AFAM) italiana?

La serie Saranno famosi rappresenta la formazione artistica come un'esperienza totalizzante: non solo educazione, ma anche rito di passaggio, laboratorio di crescita personale, spazio di comunità. Questo tipo di narrazione ha avuto un impatto duraturo, alimentando una visione romantica e idealizzata della vita scolastica artistica. Ma quanto questo modello si avvicina o si discosta dalla realtà dell’AFAM?

Le istituzioni dell’AFAM – Conservatori, Accademie di Belle Arti, Accademia Nazionale di Danza, Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, ISIA – formano oggi decine di migliaia di studenti nei campi della musica, della danza, del teatro, del design, delle arti visive e applicate. Tuttavia, la loro organizzazione e visibilità pubblica sono ben lontane dalla forza narrativa delle serie televisive. Laddove Fame mostrava un luogo in cui il talento era al centro e la scuola esisteva per farlo fiorire, l’AFAM spesso si trova a lottare per il riconoscimento istituzionale, la stabilità del personale, l’adeguatezza delle strutture e la possibilità di sviluppare ricerca artistica come elemento fondante dell’identità formativa.

Un altro mito diffuso dalla serie è che il talento – se abbastanza forte – possa superare ogni ostacolo. Ma il sistema AFAM insegna, e con lucidità, che il talento senza contesto non basta. Serve un ambiente istituzionale che lo riconosca, lo sostenga, lo accompagni con politiche coerenti e strutture adeguate. In Italia, l’assenza di una piena equiparazione con l’università, la carenza di investimenti in ricerca artistica, la precarietà di molti docenti, l’inadeguatezza di alcuni spazi formativi e il ritardo nel riconoscimento dei titoli sono ostacoli sistemici che vanno oltre la narrativa romantica.

Nessuna serie ha ancora raccontato l’impegno quotidiano di centinaia di docenti AFAM che, pur tra mille difficoltà, mantengono viva la qualità della formazione. Nessuno ha ancora messo in scena il lavoro silenzioso delle direzioni, degli uffici, dei tutor, dei laboratori che rendono possibile ogni lezione, ogni saggio, ogni diploma. In questo, la realtà è più faticosa, ma forse anche più profonda.

Non si tratta di dire che Saranno famosi sia un modello irrealistico da rifiutare, ma piuttosto di coglierne il valore simbolico e trasformarlo in stimolo per una riflessione più ampia. Se la serie ha avuto la forza di rendere visibile il valore della formazione artistica, l’AFAM ha il dovere di raccontarsi meglio. Di mostrare alla società – attraverso dati, testimonianze, progetti e narrazioni pubbliche – che formare artisti, creativi e professionisti della cultura non è un esercizio romantico, ma un investimento strategico per il futuro del Paese.

L’AFAM italiana ha bisogno di essere raccontata, ma non solo nei termini dell’eccellenza e dei successi individuali. Ha bisogno di narrazioni collettive, di attenzione pubblica, di riforme coraggiose. E ha bisogno anche di immaginari. Forse è tempo di scrivere una nuova serie, questa volta italiana, capace di raccontare davvero cosa significa formarsi nell’arte oggi. Con le sue fatiche, certo, ma anche con la dignità, la profondità e la bellezza di una comunità che continua a credere che l’arte non sia solo un talento da esprimere, ma una forma di cittadinanza attiva, critica e visionaria.

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